Locandina Un Medico Un Uomo

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     “UN MEDICO UN UOMO” di Randa Haines

    DIALOGARE CON LA PROPRIA MALATTIA
    PER IMPARARE A DIALOGARE
    CON LA MALATTIA DEGLI ALTRI.

     

    Traccia di lettura sophiartistica del film
    A cura di Daniela Attili e Carlo Michele Cortellessa

     

    Abbiamo scelto questo film perché parla della malattia e di come la malattia ci spinge verso superamenti e trasformazioni esistenziali. Anche se nel film la malattia viene affrontata con la radioterapia e la chirurgia classiche, il film stesso suggerisce la necessità di intraprendere un percorso di integrazione di strumenti, metodi e approcci che sono espressione di altrettante visioni dell’uomo che li sottendono.
    Per realizzare questa integrazione abbiamo bisogno, come il protagonista, di partire dal superamento della scissione tra medico buono e medico cattivo e fra medicina buona e medicina cattiva. E soprattutto tra vita e morte.
    Essere nati, vivere, significa, inesorabilmente, “sapere” di dover morire. Non sappiamo né dove, né come, né quando, ma tutti sappiamo nel fondo del nostro cuore di dover morire. Così come tutti sappiamo nel fondo del nostro cuore che per vivere è necessario trasformarsi, cioè passare attraverso ripetute morti e rinascite esistenziali.Ma qual è  il livello di consapevolezza e la qualità di questo sapere?
    La malattia ce lo ricorda!
    Quali sono le emozioni e quali le reazioni difensive che attiviamo verso tali emozioni? Come reagiamo all’angoscia di morte (inconscia, quella del bambino che piange la perdita fantasmatica della madre) e all’angoscia della morte (quella conscia, la paura di morire)? Il problema non è quanto vivremo, ma come lo viviamo, e la qualità della vita si misura nella decisione di vivere appieno ogni attimo in linea con il nostro vero Sè.
    Quanto la paura della morte nasconde in realtà la paura di  vivere veramente?
    Jack McKee, un brillante e noto cardiochirurgo, affronta la sua vita difendendosi inconsapevolmente da un inesorabile senso di impotenza, attraverso una esistenza privata e professionale costruita sull’onnipotenza dell’atto chirurgico e su un approccio medico e relazionale che si nutre di cinismo, distacco affettivo ed efficienza, ma soprattutto di chiusura ad una riflessione profonda sull’esistenza e alla comunicazione di ciò che alberga nelle profondità dell’animo umano.
    Si presenta così un falso Sé, un’identità di copertura, apparentemente attraente e invidiabile, dove il successo, il denaro, il prestigio, l’immagine sono gli ingredienti di una  posizione di  potere che lo tiene lontano dagli abissi della vita.
    E’ a questo punto che arriva il tumore.
    Perché proprio un tumore? Perché proprio alla laringe? E proprio a lui, che aveva pure smesso di fumare? A volte non abbiamo modo di dare un senso/significato alla malattia. A volte non siamo in grado di coglierlo. Tentare di interpretare la malattia, di capire perché proprio quella malattia e perché proprio a noi è un approccio auspicabile; ma anche quando non siamo in grado di comprenderne il senso o il significato possiamo comunque cogliere l’occasione per trasformarci. Anche quando ci rimane poco da vivere.
    Possiamo urlare, tirando fuori la rabbia dell’impotenza, possiamo suicidarci, per ribadire l’onnipotenza di decidere del nostro destino, o per sfuggire ad un destino che non vogliamo accettare, oppure possiamo  attivare una riflessione autentica sullo stato della nosta esistenza fino a questo momento, attivarci per i essere presenti a noi stessi ogni attimo della nostra vita, e cogliere così l’opportunità di trasformazione che la malattia sempre ci offre.
    Jack compie molte di queste trasformazioni.
    Si concede nuove libertà (“il tumore è una cosa che mi concede libertà che prima non mi concedevo” dice June), contatta le proprie emozioni profonde (“anch’io credo che la generosità sia una qualità del muscolo cardiaco” dice Jack), abbandona la menzogna (“lei mi ha mentito, non lo faccia più “dice June) e abbandona la menzogna per l’onestà col rischio di perdere tutto (ma non il tutto di cui parla il Dr Murray!), decide di vivere ogni momento (“io sto morendo, non mi faccia perdere tempo” dice June), nel presente (“non mi interessa il concerto, mi interessa il tempo. Lo sai cosa e veramente speciale per me? questo … adesso” dice June nel deserto), smette di scappare (“urla con me” dice Jack), “abbassa le braccia” e si fa avvicinare autenticamente da se stesso e dagli altri.
    Noi potremmo andare molto oltre, sia nella comprensione (tumore / progetto del falso sé, ovvero laringe / voce / sincerità/ abbandono del progetto esistenziale materno ),sia nella scelta del modo di curarsi (terapie convenzionali o medicina olistica, agopuntura o omeopatia, fitoterapia o alimentazione,  ecc.) ma il senso ultimo è comunque quello di  tenere conto, con umiltà, del messaggio che la malattia porta con se, mettendoci nella posizione interiore di un allievo davanti ad un maestro d'eccezione; facendo i conti con la morte biologica e qon quelle esistenziali, invece di limitarci ad ignorarla, estirparla (“entro, aggiusto e me ne vado”), soffocarne i sintomi (“non è nulla…”) o razionalizzarla all’interno di un sistema filosofico-religioso, abbiamo l'opportunità di accrescere il nostro livello di coscenza e riordinare le priorità dei nostri valori. Quando Jack coglie l’opportunità di trasformazione che la malattia gli offre, e si lascia innalzare spiritualmente dalla malattia dandosi la possibilità di contattare la sua essenza profonda (June, che rappresenta il suo Sé, lo porta su, sulla terrazza) allora può accettare di morire alla sua vecchia identità e di decidere di concedersi libertà di comunicazione autentica (che prima non si concedeva) imparando ad amare prima di tutto se stesso (quando sceglie di farsi operare dal deriso Dr. Blumfield invece che dall'affermata e gelida Dr. Leslie Abbot) e poi amare e farsi amare dagli altri (“ti amo” sono le prime parole che dice con la voce ritrovata dopo l’operazione).


    Ho scherzato tante volte con i pazienti
    Minimizzando con un “tutto si risolve”
    Con l’abitudine ad “entrare, riparare e andarsene”
    E l’onnipotenza di un bisturi.
    Poi, un giorno, mi hanno detto
    “hai un cancro”.
    Tutta la vita si è srotolata in un attimo
    La paura di morire
    La forza di milioni di tonsille che vogliono tornare
    nelle loro gole
    le mie risate sguaiate con le mani nelle viscere degli “altri”
    il terminale della diciassette
    la cicatrice sul paginone di Playboy
    e quello che sa fare Laslie Abbot con la bocca.
    Adesso sono io “il paziente”
    Il tempo assume un altro significato
    Non ho idea di cosa pensi mio figlio
    Non sono capace di amare e di comunicare
    Di farmi avvicinare dagli altri
    Non ho più voce in capitolo
    Urlo, mi butto o combatto?
    La prima battaglia va a vuoto
    la radioterapia non basta
    devo rischiare di perdere la voce.
    Decido di attraversare la paura
    decido di affidarmi alla voce di Blumfield
    oltre che a un bisturi
    decido di assumermi la responsabilità della cucina
    “urla con me”, sono io che l’ho voluta.
    E ce la faccio,
    mentre intorno a me la gente muore,
    Barbara, che non consegnerà mai il suo scialle,
    che ha finito dopo tanti mesi,
    June, che mi ha insegnato ad esserci.
    Forse è vero
    La generosità
    È un attributo del muscolo cardiaco
    Ho deciso di non mentirmi mai più.

    Dr.ssa Daniela Attili • Psicologa • Psicoterapeuta • Antropologa esistenziale
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